
“Il Cielo diviso” è ormai considerato un romanzo rappresentativo della letteratura tedesca, il cui successo non si è limitato alla Repubblica Democratica Tedesca, dove è stato pubblicato nel 1963. L’opera è considerata un piccolo classico ed è da sempre accompagnato da numerose discussioni a livello letterario e politico, emerse soprattutto dopo gli anni drammatici culminati nella costruzione del muro di Berlino (13 agosto 1961), l’avvenimento che fa da centro invisibile a questa moderna favola d’amore.
La critica ha inserito la Wolf nella piccola schiera, molto letta e discussa, degli scrittori socialisti a carattere nazionale, contraddistinti, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, dalla trattazione del confronto tra individuo e società. È importante sottolineare che l’autrice, durante tutta la sua carriera letteraria e soprattutto ne “Il cielo diviso”, è riconosciuta come punto di riferimento nella R.D.T. per quanto riguarda l’analisi di temi quali la definizione psicologica dei personaggi, introspettivamente seguita con incessanti riferimenti tra passato e presente, la critica comparazione generazionale e la contrapposizione tra la vita comunitaria e quella domestica.
La Wolf dimostra specificamente di non credere alla estraneazione, all’ambiguità del linguaggio, e si propone chiaramente di descrivere la quotidianità in modo semplice, quasi banale, mentre le descrizioni dei paesaggi (psicologici) raggiungono, talvolta, una dimensione lirica.
Questo romanzo aggiunge un tassello alla comprensione della storia drammatica di questo paese e incide sulle contraddizioni dolorose fra le ragioni dell’ individuo e quelle della moltitudine. La storia d’ amore di Rita e Manfred cresce all’ombra del muro di Berlino, ancora imponente e minaccioso, e termina quando Manfred decide di trasferirsi nell’Ovest mentre Rita rimane nella Germania dell’Est.
La divisione dei due protagonisti è metafora della divisione, sia politica che culturale, della Germania, e ciò è esemplificato nella descrizione che la Wolf propone delle città della DDR – sentite come familiari, sicure e accoglienti – contrapposte a Berlino Ovest, frenetica capitale della BRD.
L’intero romanzo si apre con la descrizione della città (di cui non è specificato il nome) della Germania dell’Est in cui la protagonista vive:
“La città, poco prima dell’autunno immersa ancora nella calura dopo la fresca estate piovigginosa di quell’anno, respirava con più veemenza del solito. Il suo respiro si effondeva in fumo denso su da cento ciminiere di fabbriche nel cielo terso, ma poi gli mancava la forza di proseguire. La gente, da tempo avvezza a quel cielo velato, lo trovava improvvisamente insolito e difficile da sopportare, sfogando la subitanea irrequietezza anche sulle cose più remote. L’aria la opprimeva, e l’acqua – quell’acqua maledetta che puzzava di residui chimici da tempo immemorabile – aveva un sapore amaro. Ma la Terra la reggeva ancora, quella gente, e finché ce n’era l’avrebbe fatto.”
Interessante è notare come la Wolf analizzi la vita quotidiana nella DDR attraverso la descrizione della città, collegando sentimenti che legano la protagonista femminile della narrazione alla sua percezione dello spazio urbano:
“Tornammo così dunque al nostro lavoro quotidiano, che avevamo interrotto per alcuni istanti ascoltando la voce dell’annunciatore radiofonico e più ancora le impercettibili voci di pericoli assai prossimi, tutti letali in quei tempi. Per questa volta, erano scongiurati. Un’ombra era calata sulla città, ora era di nuovo calda e viva, generava e sotterrava, donava ed esigeva vita, ogni giorno.”
“Ora, a un tratto, era tutto un susseguirsi di progetti. Vedeva capannoni di fabbriche, locali fumanti e maleodoranti, che alla sua immaginazione apparivano belli.“
Il romanzo si configura come una ricerca, da parte della protagonista, dei motivi della fuga di Manfred nel mondo occidentale e della propria decisione di rimanere, invece, al proprio posto nel proprio paese, dove “tutto è calore e intimità”, come ingenuamente dichiara al suo insegnante Schwarzenbach. Ciò appare come la rielaborazione del ricordo dei tempi ormai passati, l’analisi di un amore che a lei era sembrato un nido, una fortezza esclusiva e inespugnabile e la lenta percezione della realtà circostante.
L’esperienza di Rita è anche legata alla sua visione della “città socialista”. Registrare lo sviluppo urbano e la politica tipica delle città della Repubblica Democratica Tedesca considerandolo il risultato del potere centrale dello stato è infatti fondamentale per capire appieno la potenza del governo socialista. Solo percependo la RDT come una società basata sul lavoro e analizzando la struttura e la direzione delle città si può comprendere il raggio d’azione dei singoli centri urbani in relazione allo stato.
Peter Hübner ha sollevato la questione della “laborizzazione” della vita urbana nella RDT. Le città della DDR erano luoghi di stabilizzazione del regime della SED (Partito di Unità Socialista della Germania – Sozialistische Einheitspartei Deutschland), e costituivano una specifica “urbanità socialista”:
“Ah già, la città. Più precisamente la fabbrica, il capannone di montaggio. […] Rita cominciò a guardarsi intorno. La fabbrica era un caos rumoroso e sporco; un incrociarsi di capannoni, tettoie e case, tagliato in tutti i sensi da binari, percorso da vagoni, auto, carri elettrici, schiacciato in un triangolo troppo esiguo tra la via più trafficata della città, un’altra azienda e la linea ferroviaria.”
Ma si assiste anche alla lenta evoluzione psicologica di una ragazza che, a poco a poco, attraverso lo scontro con la realtà conquista il proprio posto nella società.
La ragazza, che per amore si trasferisce da un piccolo paese di provincia in una città sconosciuta, che si attendeva dalla vita soltanto “eventi eccezionali”, perviene ad una meditata responsabilità, a una sobria e disincantata maturità femminile e umana: non vale fuggire, vale solo resistere nella città socialista e lottare per essa.
“E’ questo che l’ha riempita di stupore, quando era nuova in città. Non ne conosceva di città, se si esclude il fatto che in quella c’era già stata, a far spese o in visita. Era curiosa di tutto e di tutti. Aveva il batticuore recandosi a ispezionare il teatro delle sue future avventure. Si proponeva di essere tenace, intrepida e scrupolosa. Fu colpita dal fatto che si trattava di parecchie città. Esse sono cresciute a cerchio l’una intorno all’altra, come un albero annoso. Percorse su e giù gli anelli stradali e in poche ore travalicò senza fatica alcuni secoli. Era attirata dal nucleo interno della città, che non era certo fatto per quel traffico e per quella folla, e scricchiolava nelle sue giunture quando prorompeva il flusso serale del rientro a casa, dagli acquisti e del ritorno dal lavoro. Tutto questo la divertiva, si lasciava trascinare e spingere, si metteva in un cantuccio aspettando che intorno a lei esplodessero le luci. Aveva anche un po’ di paura. Lì nessuno bada all’altro, com’è facile smarrirsi, pensava. I giovani sul tram restano seduti lasciando in piedi le vecchie, le auto ti schizzano il fango sulle gambe, nei negozi la fretta fa sì che ci si sbattano le porte in faccia; e nei grandi magazzini le commesse invitate in direzione vengono chiamate con gli altoparlanti…”
“Percorse le lunghe file di casermoni anonimi nei quartieri operai, leggendo le targhe a qualche angolo di strada: “Qui cadde durante le lotte del marzo 1923 il compagno…”. Alcune strade acquistavano a un tratto la propria data e il proprio volto. Quelle duecentomila persone non vivevano lì perché fosse divertente viverci. Si vedeva dalle loro facce: una diversa specie di eccitazione, di scaltrezza, di decisione e di stanchezza. Volontariamente, certo, non ci si veniva. Ma che cosa era a costringerle?”
“A me non importa granché dei presentimenti, ma che talvolta mi sarei sentita avvilita, questo lo sapevo, mentre me ne stavo lassù sulla torre. Centomila facce, se volevo. Fra le cento del mio paese, non sono mai stata così sola. Capita ancora a una ragazza di arrivare per la prima volta nella vita in una grande città.”